Cosa succede se ci svegliamo un attimo prima della fine?
Se, mentre le luci si abbassano sulla nostra storia, sentiamo il bisogno urgente di dire qualcosa, qualsiasi cosa, per riordinare, rimediare, salutare? Wakey Wakey di Will Eno — da noi diventato Sveglia — è una drammaturgia che danza su questa soglia, un monologo che non è solo parola, ma epilogo, inizio, battito.
Will Eno, autore contemporaneo dalla scrittura essenziale e metafisica, ci porge un uomo in pigiama che si rivolge direttamente a noi: “State comodi. Non durerà molto.” In quel “non durerà molto” c’è tutta la tensione tra l’immediatezza del presente e il destino finale. Un uomo qualunque — forse morente, forse già morto — ci accompagna tra immagini, ricordi, nonsense, tentativi teneri e goffi di trattenere qualcosa del vivere. In fondo, è uno spettacolo che parla della morte per raccontare la vita. O meglio: per domandarci cosa sia, davvero, vivere.
Oggi, in un tempo iperconnesso e iperstimolato, Sveglia suona come un paradosso: un uomo seduto, in pigiama, su una sedia, che ci invita a fermarci e a sentirci. Sembra poco, ma è tantissimo. Perché mentre il mondo ci spinge ad andare, a produrre, a correre, questa drammaturgia ci chiede una cosa scandalosa: restare. Restare accanto a chi sta andando via. Restare con noi stessi, con le nostre paure, con la domanda che ci portiamo dentro fin da bambini: “Che fine farò?”
Come attore, mettere in scena questo testo è stato per me un esercizio di presenza estrema. Non c’era finzione da difendere, né personaggio da abitare nel senso tradizionale. C’era da esserci. Con le mie parole, ma anche con le mie pause. Con le mie esitazioni, ma anche con il desiderio sincero di comunicare, di lasciare un segno. La scrittura di Eno ti costringe a smettere di recitare e a cominciare a testimoniare.
Ma è stato anche, forse soprattutto, un lavoro da psicologo. Da poco abilitato, in quel periodo, e già profondamente formato dalla psicoanalisi, mi trovavo ogni sera davanti a spettatori che non erano lì solo per uno spettacolo, ma — mi pareva — per un rituale laico. Perché parlare della morte oggi, in teatro, non è solo coraggioso: è necessario. In una cultura che nega la fine, che medicalizza ogni passaggio e sposta la soglia del dolore sempre più in là, Sveglia è un gesto controcorrente. È come accendere una candela al crepuscolo e dire: “Lo so. Fa paura. Ma vieni. Siediti con me. Possiamo riderne insieme.”
Ed è proprio la tenerezza ironica di Will Eno a permetterci questo attraversamento. Non c’è tragedia in Sveglia. C’è una malinconia buffa, una poeticità lieve. Oggetti di scena minimali (una bottiglietta d’acqua, una clessidra, un video con immagini di bambini, animali e paesaggi) diventano elementi di connessione profonda con chi guarda. Il teatro si fa spazio mentale, soglia condivisa, luogo terzo in cui attore e spettatore si tengono per mano e si domandano: “Abbiamo amato abbastanza? Abbiamo visto bene? Abbiamo detto grazie?”
Il mio desiderio, come attore-psicologo, era proprio questo: portare il teatro al centro di un’esperienza trasformativa. Fare dello spazio scenico un laboratorio di consapevolezza, dove si potesse ascoltare senza fuggire, guardare senza abbassare lo sguardo. Il teatro, come la psicoterapia, ha senso solo se ci fa attraversare. E Sveglia, in questo senso, è un viaggio. Breve, essenziale, eppure denso. Come un sogno lucido a fine corsa.
Molti spettatori mi hanno detto, alla fine dello spettacolo, che non si erano mai sentiti così sereni parlando della morte. È la magia del teatro, certo, ma anche la verità della psicologia quando non si nasconde dietro diagnosi e protocolli, e osa entrare in relazione. Perché il lutto, l’angoscia, la perdita, sono temi che ci toccano tutti. Ma ciò che ci cura non è la soluzione. È la condivisione. È poter sentire che, anche nella fine, c’è spazio per l’umano, per il legame, per il sorriso.
“Sveglia” è stata per me anche una chiamata. Un promemoria a vivere. A non aspettare. A dire “ti voglio bene” prima che sia troppo tardi. In un’epoca che teme l’intimità e celebra la superficie, questo spettacolo è un atto d’amore contro l’anestesia collettiva. È un invito gentile, ma fermo: svegliamoci. Non domani. Ora.